Manifestazione "Non Una di Meno": il grido contro il patriarcato non si spegne

di Giulia Palummieri

La manifestazione di oggi di "Non Una di Meno" è stata molto più di un corteo: è stata una dimostrazione di forza, un rifiuto collettivo di accettare un sistema che si nutre del silenzio e della paura. Migliaia di persone hanno invaso le strade di Roma, non solo per protestare, ma per ricordare al mondo che il patriarcato non è una reliquia del passato, ma un’ombra che si allunga sul nostro presente. Ogni slogan, ogni striscione alzato al cielo, è stato un atto di resistenza, una dichiarazione di guerra contro un ordine sociale che ancora oggi definisce chi siamo e come possiamo esistere.

Ma non fermiamoci alla superficie. Non limitiamoci a dire che "il patriarcato è sbagliato" senza chiederci come lo alimentiamo, ogni giorno, con le nostre scelte, i nostri silenzi, e, soprattutto, con l’educazione che trasmettiamo. La cultura del rispetto non è un’aspirazione astratta: è un lavoro quotidiano, una sfida che inizia a casa, nelle scuole, nelle strade. Si parla spesso di educare le donne a proteggersi, a evitare, a sopravvivere. Eppure, non si combatte la violenza lavorando sulla vittima: si previene lavorando sul carnefice. Un uomo educato al rispetto non sarà mai una minaccia, perché riconoscerà l'altro come uguale, non come oggetto, non come conquista, non come preda.

Il rispetto, però, non può nascere in un vuoto. Va coltivato in una società che smetta di giustificare le

micro-aggressioni quotidiane, quelle battutine che “non fanno male a nessuno”, quegli apprezzamenti che diventano minacce nel contesto sbagliato. Una società che smetta di romanticizzare ruoli e stereotipi ormai logori. Quanto ancora possiamo tollerare che le donne debbano muoversi come funamboli su una corda tesa tra la voglia di libertà e la paura di essere giudicate, aggredite, o peggio, uccise?

E non è solo questione di paura. È questione di spazio. Di diritto a esistere senza chiedere il permesso. Pensiamo al catcalling: c’è chi lo minimizza come “complimenti mal fatti”. Ma un complimento nasce dal rispetto, non dall'imposizione. Quando un uomo urla di tutto ad una donna per strada, non sta cercando di farla sentire bella. Sta marcando il territorio, reclamando un potere che non gli spetta. Perché la verità è che una donna non può sapere se dietro a quell'urlo c’è solo l'ego del grande maschio che deve sentirsi tale o un pericolo. E questo non è un approccio, non è: "Volevo solo fare conoscenza", "Ormai non si può più dire nulla": è il patriarcato che respira, vive e si rigenera.

La manifestazione di oggi è stata anche un invito a guardare oltre le apparenze. Siamo una generazione cresciuta tra i retaggi di un patriarcato che i nostri genitori hanno inconsapevolmente normalizzato e le scintille di una consapevolezza che si sta facendo strada, ma a fatica. È un momento di transizione: abbiamo vinto alcune battaglie, ma siamo ancora legati a certe nostalgie di un passato che ci sembra rassicurante. La galanteria, ad esempio, è un nodo difficile da sciogliere. Cosa c’è di sbagliato, ci chiediamo, in un gesto gentile? Nulla, se fosse solo questo. Ma quando quel gesto è radicato in una cultura che ci vede deboli, delicate, inferiori, allora diventa un riflesso di una subordinazione che vorremmo credere superata, ma che persiste. E sì, lo ammetto, avendo quasi 40 anni per me è difficile abbandonare del tutto quei comportamenti; questo ovviamente non deve essere una scusa per eliminare gentilezza, affetto e tutto ciò che fa sentire speciale l'altro, la differenza è che sarà reciproco. Io non so ancora portare dei fiori al mio fidanzato (so fare tanti altri gesti carini), ma voi fatelo, se vi piacciono questi momenti di affetto e non perché si deve.

E poi ci sono loro, i ragazzi di oggi, che sembrano così distanti da noi. Li guardiamo con ammirazione e

un pizzico di invidia: cresciuti in un mondo che parla di consenso, di uguaglianza, di autodeterminazione. Ma un giorno saranno i giovani di domani a non capire più loro e a lottare ancora, è praticamente inevitabile e giusto. Ogni generazione nasce con delle battaglie già vinte che dà per "scontate" e ne combatterà di nuove.

Le strade di Roma, in questa giornata, ci hanno ricordato che ogni passo è una scelta. Camminare insieme è una dichiarazione di intenti. Non stiamo solo occupando uno spazio fisico, stiamo reclamando un diritto: quello di essere, di vivere, di contestare. Non è una lotta facile, né breve. Ma è una lotta necessaria. Il cambiamento non è un traguardo, è un processo. Siamo qui per farlo andare avanti. Usciamo dai post, dalle tastiere, dai concetti facili e veloci, dai like e dai commenti istantanei. Servono anche quelli, ma non bastano. Dalla lotta armata siamo passati alla lotta al bar, per poi approdare alla battaglia digitale solitaria. Riprendiamoci il rumore.


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*Tutte le foto presenti sono state scattate me. Puoi vedere altre immagini cliccando qui 

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